domenica 26 giugno 2022

La fama: quel sonetto dimenticato di Giacomo Leopardi

Leopardi, il grande Leopardi dubitava di se stesso. Lo dice a vent'anni in un sonetto, Letta la vita di Vittorio Alfieri. E' difficile immaginare che l'autostima di Leopardi fosse così precaria. Oggi facciamo corsi sull'autostima perché riteniamo che la sensazione di non essere all'altezza non sia propriamente una virtù. E se invece, quel sentimento così sgradito a una società efficiente e super informata fosse la salvezza per il futuro di questo pianeta, come lo è stato per la scrittura di Leopardi?
Peccato che quel sonetto sia pressoché assente nei manuali di letteratura italiana delle scuole superiori costruiti, a torto o a ragione, su basi statistiche: gli autori più importanti, le opere più famose, le teorie più diffuse. Si tratta di un insieme di informazioni che, nel gettare senz'altro le solide fondamenta della cultura, sorvolano sul ruolo dell'eccezione a vantaggio dell'eccezionale, del pensiero nella sua fase nascente quando, intento a sperimentare, è invaso dal senso profondo di inadeguatezza. Peccato, perché l'eccezione, oltre a confermare la regola, è il seme che fa avanzare la conoscenza di sé e del mondo. Così si studiano le teorie, le definizioni, i risultati, ignorando la percezione dell'approssimarsi alla verità senza mai raggiungerla completamente, ignorando il dubbio che scorre sotterraneo alla radice di ogni conquista scientifica. Non c'è da meravigliarsi se siamo disorientati perciò dalla medicina che di fronte a una nuova pandemia non ha risposte certe da dare al mondo. Chissà che questa esperienza collettiva non getti le basi per un'educazione al sentimento della sperimentazione, che ci salvi dalla hybris così dilagante nella nostra epoca apparentemente iperconnessa.  
Il nozionismo è utile se bilanciato dalla consapevolezza che niente di ciò che pensiamo di sapere, che la scuola ci induce a credere di sapere, è nato nella forma in cui ci viene presentato. Ha subito una gestazione, una evoluzione, un tormento tali da da renderlo davvero degno di trasmissione. Così anche la scrittura di Leopardi, prima di diventare matura, ha sostato nella terra di confine del dubbio, dove l'incertezza rispetto alla possibilità di lasciare un segno del passaggio su questa terra produce lo sgomento dell'anonimato. 
Ecco che quel sonetto del giovane poeta è testimone della ricerca ancestrale di un Nome. Alcune notiziole su l'antefatto della sua acerba prova letteraria ce la dà lui stesso: lo ha scritto di notte, prima di prendere sonno. Ha appena concluso la lettura della Vita di Vittorio Alfieri. Nel letto, quando i fatti della giornata sfilano davanti ai nostri occhi per poi essere risucchiati nel buio, ci ripensa. Confronta quella sua propensione alla rima, quella "facilità" con cui si prende la briga di comporre versi, con l'opera di Alfieri e dice a se stesso senza mezzi termini: "dalla mia penna non uscirebbe mai sonetto". Appena lo afferma però, si contraddice. Almeno questa volta. 
Leopardi sente di essere inadeguato alla grandezza. Nessuno penserà, un giorno, di visitare la sua tomba. Ma è in balia del suo daimon e osa. Si immerge in se stesso e nella vita, attraverso il sentimento, il pensiero e i libri. E' così che riuscirà a intonare il suo canto duraturo, patrimonio comune; nonostante giunga a negare - ironia della sorte - che l'uomo possa davvero compiacersi dell'immortalità. Scriverà ne La ginestra: "ma più saggia [la ginestra ndr], ma tanto / meno inferma dell'uom, quanto le frali / tue stirpi non credesti / o dal fato o da te fatte immortali".  Il suo sarà un viaggio sincero e spietato verso la condivisione della parola, in grado di parlare a ogni individuo di ogni epoca. Il cruccio per una fama irraggiungibile non prenderà le forme morbose di un sospirato riconoscimento, ma esprimerà la volontà di collegarsi alle sorti dell'uomo. Se magnifiche e progressive staremo a vedere.

domenica 12 giugno 2022

La voce della luna nel rumore della guerra

Sono giorni rumorosi i nostri. E' un po' che il cielo sopra casa mia è percorso da pesanti aerei che vanno avanti e indietro. Sono grossi elefanti grigi che nascondono nel loro ventre chissà quali stratagemmi mortali. Il suono, che parte da lontano, sembra risucchiare l'aria per aprirsi un varco. Quindi il rombo si fa costante per poi ammutolire all'orizzonte. Altre volte sfrecciano veloci e snelli, trasportando forse capi di stato o ambasciatori. Sono cieli rumorosi i cieli di questi giorni. Ma, per sentire la voce della luna, imperturbabile e indifferente al traffico aereo, per capire le voci di un altro mondo serve il silenzio. Questo è il suggerimento che conclude La voce della luna di Federico Fellini. 
Nel nostro tempo di guerra sembra non esserci spazio per la poesia, per le voci che traboccano dai pozzi per riversarsi nella realtà. Voci che i "lunatici" odono al di là del rumoreggiare del mondo. Quelli che definiamo genericamente "malati", a cui per pudore intellettuale assegniamo ogni sorta di appellativi, sono i custodi della poesia, i profeti, gli strumenti con cui il mondo misterioso della nostra anima o della nostra psiche intona la sua musica. Sono voci che non devono essere "capite", ma semplicemente ascoltate. 
E' una follia desiderare che le armi tacciano affinché la luna torni a parlare?