domenica 10 dicembre 2023

"Meritocrazia": quella parola coniata da Michael Young nel 1958

La parola merito sembra innocua, anzi, altamente democratica. Ma nel saggio distopico di Michael Young, L'avvento della meritocrazia (1958), è pervasiva e totalitaria, fortemente conservatrice.

Il saggio è ambientato nel 2033 in Inghilterra e ricostruisce gli eventi che hanno sradicato il nepotismo e il principio ereditario capisaldi della distinzione in classi e della distribuzione delle ricchezze, che in una società di tipo rurale aveva come fine la conservazione del potere nelle mani di famiglie aristocratiche per nascita.

Alla base della trasformazione in senso progressista, il sociologo-protagonista del saggio pone due fenomeni. Il primo riguarda l'affermazione del partito laburista che attraverso una politica favorevole all'uguaglianza di opportunità, concretizzato prima di tutto in un sistema scolastico inclusivo e accessibile anche alle classi povere, ha stimolato la mobilità sociale. Il secondo esprime la necessità oggettiva di rendere l'Inghilterra competitiva nello scenario economico internazionale, attraverso investimenti razionali in capitale umano, da scovare nelle famiglie di qualsiasi estrazione sociale per istruirlo e formarlo al successo dell'intera nazione. Da qui la diffusa e pressoché unanime accettazione e promozione di leggi in favore di un sistema scolastico particolarmente attento all'istruzione dei più dotati: dalla creazione di scuole di eccellenza alla paga settimanale per gli studenti più meritevoli. 

L'unità di misura del merito è il QI. Un'intelligenza accertata con test specifici e sempre più raffinati, predittivi del successo futuro.

Ora, tutto questo sembra oggettivamente sensato: come si può contestare il principio secondo cui l'istruzione sia alla base di una società che partecipi da protagonista alla dinamiche concorrenziali nazionali e internazionali? Tuttavia la questione centrale, che emerge in questo saggio e che lo fa portavoce appunto di un'utopia negativa, è nascosta dietro un formulario specifico, rivelatore di una concezione utilitaristica della conoscenza. Alla base dell'istruzione traspaiono scelte razionali tendenti a massimizzare l'utilità individuale e sociale, ovvero quei vantaggi che si traducono in competitività. L'istruzione è fondamentalmente e sin dalle scuole primarie un patrimonio non finanziario, ma intellettivo, da immettere nella macchina economica.

La civiltà è valutata in funzione del ritmo del "progresso sociale" e della capacità di "resistere alla concorrenza", entrambi determinati da quanto "il potere si accoppia all'intelligenza": l'intelligenza allocata nei posti di potere è alla base del vantaggio competitivo di una nazione. Pertanto, una società efficiente è quella che non "spreca" risorse e fa "il miglior uso del materiale umano e dell'ingegno". In questa ottica, l'intelligenza è l'insieme delle "qualità occorrenti a trarre profitto da un'istruzione superiore".

Un'intelligenza misurabile, s'è detto: "non appena si comprese che anche a una macchina si può esaminare e valutare l'intelligenza", scrive il sociologo, "proprio come a un cervello umano, fu possibile stabilire un'unità di misurazione". Il cervello è un terreno da sfruttare, e la conoscenza è l'insieme dei raccolti che verranno successivamente immessi nel mercato. 

Chi sono, allora, i meritevoli? Sono i "geni", quelle "persone superiori" contrapposte ai "deficienti". Sono una "minoranza creatrice" che si distingue per un QI superiore a 125/130 dalla "massa ignorante". Il meritevole è un innovatore che "con un solo gesto fa risparmiare il lavoro di diecimila persone". Possiede una "curiosità inesauribile". Appartiene a una "dinamica élite" con la responsabilità e il privilegio di portare sulle proprie spalle un "destino genetico".

Giungiamo così all'acme del ragionamento: "Gli uomini dopotutto si distinguono non per l'uguaglianza, ma per l'ineguaglianza delle loro doti". A stabilire l'ineguaglianza è la stessa natura che ha assegnato a ciascuno una "posizione nella vita proporzionata alla sua capacità".

Il vero mutamento degli ultimi cento anni non consisterebbe nella ridistribuzione delle ricchezze, ma dell'intelligenza, che a sua volta ha modificato la stessa natura delle classi: ora a classi superiori corrispondono intelligenze e capacità superiori; viceversa a classi inferiori corrispondono capacità inferiori. Un nuovo mondo fondato sul merito che "non aveva più bisogno che gli intelligenti si mescolassero agli stupidi". Un nuovo mondo in cui "i capiclasse delle elementari costituivano i futuri dirigenti della nazione".

Il cerchio si chiude. Il progresso ottenuto grazie alla meritocrazia conduce all'affermazione di un nuovo ideale, "l'aristocrazia dell'ingegno", e agli eventi che concludono il saggio.

Nell'uso calcolato di qualunque valore umano (come l'intelligenza), al quale venga tolto il carattere individuale e sfuggente al fine di standardizzarlo, quantificarlo e impiegarlo per massimizzare il profitto economico, sembra annidarsi la maledizione di questo mondo: l'impossibilità che tutti possano essere felici, e se non felici almeno in pace.