martedì 14 aprile 2020

Trentaseiesimo giorno

La generazione del deserto abbandonò l'Egitto e si liberò dalla schiavitù per raggiungere la terra promessa...
E' interessante il fenomeno secondo cui il testo biblico, a differenza di altri libri dell'antichità, conserva per molti un valore letterale che, se da un lato potrebbe indicare una fede incrollabile, dall'altro ne limita fortemente l'effetto, in particolare in contesti laici. Le vicende bibliche rimanendo vincolate alla storia, garante della verità, difficilmente sono accettabili da chi non è direttamente coinvolto. Gli ebrei, o i cristiani che generalmente considerano quei fatti come realmente accaduti in quanto prodromici dell'era inaugurata da Gesù, sono portavoce di un passato in grado di configurare una loro precisa identità. In questo modo, il resto dell'umanità ne risulta esclusa, a meno di una conversione. Tuttavia, quelle stesse narrazioni se caricate, non di realismo, ma della forza che scaturisce dal mito, possono davvero parlare un linguaggio universale che travalica i confini delle nazioni, dei popoli,  delle professioni di fede e delle tradizioni. Il grande limite delle confessioni religiose è forse proprio la continua tensione verso la definizione di sé, la circoscrizione di precisi confini e perciò la caduta nel paradosso: la divinità per sua natura senza principio né fine, non contenibile in una forma, è simile in modo imbarazzante ai suoi stessi fedeli.
Se, invece, si sospende il giudizio storico - "è accaduto e perché", o "non è accaduto" - e si leggono quegli eventi come mitologici, ecco che i muri crollano e i significati si espandono a beneficio non dell'identità, ma dell'individuazione. L'identità, in fondo, è un compromesso perché implica l'appartenenza a un genere o a un gruppo. L'individuazione è invece un ampliamento della coscienza, un superamento delle definizioni. 
Il mito non nega la storia, ma anzi la eleva a simbolo. Perché la storia, sia personale che collettiva, non sempre è maestra di vita? Fra quattromila anni, come verrà interpretato il momento che stiamo vivendo dall'umanità o da qualche altra forma di vita intelligente che avrà preso il suo posto? Oppure, a cosa può servire la storia dell'antichità oltre a farci stupire - nella migliore delle ipotesi - e ad affollare le teche dei musei? Il tempo è come un diluente, che man mano riduce la concentrazione di partecipazione razionale ed emotiva ai fatti: più mi allontano, più dimentico. Il rito ha la funzione di rinnovare la memoria, ma l'abitudine alla ripetizione è l'altro inganno da cui guardarsi.
Come se ne esce?
Attraverso il racconto reiterato del mito. Raccontando "di nuovo" si salva il simbolo, e con esso anche la storia.